Articolo di Natalino Russo con intervista a Francesco Sauro, su OggiScienza
Speleologia e ricerca scientifica: un’esplorazione nelle grotte del Venezuela
Intervista a Francesco Sauro, premiato col Rolex Award for Enterprise per le esplorazioni in corso sui tepui quarzitici del Sud America
APPROFONDIMENTO – Un gruppo di speleologi coordinato dall’associazione italiana La Venta sta esplorando grandi grotte nei tepui, le montagne di quarzite che si ergono come pilastri sopra le immense distese della Gran Sabana venezuelana e dell’Amazzonia brasiliana. Venti anni di spedizioni hanno permesso di esplorare decine di chilometri di cavità sotterranee in quarzite, una delle rocce più antiche conosciute sulla Terra (1,7 miliardi di anni). Fino a qualche anno fa la quarzite era ritenuta non carsificabile. In effetti questa roccia – costituita per oltre il 95% di silice – non è solubile come il carbonato di calcio, composto che sui tepui è del tutto assente. Tuttavia l’esplorazione speleologica di queste montagne ha dimostrato che nella quarzite esistono reticoli di drenaggio analoghi a quelli nei carbonati, quindi non soltanto fratture verticali a genesi strutturale ma anche sistemi di gallerie suborizzontali. Recentemente è stata esplorata la Imawarí Yeuta, una grotta con ambienti di grandi dimensioni, enormi gallerie, saloni larghi centinaia di metri, per uno sviluppo complessivo di circa 20 km.
Oltre a consentire l’esplorazione di grandi cavità sotterranee, il progetto ha permesso di fare anche importanti scoperte in campo mineralogico e biologico. Per esempio è stato studiato un nuovo solfato-fosfato di alluminio, battezzato rossiantonite in onore del petrografo italiano Antonio Rossi (1942-2011), professore all’università di Modena. E sono state scoperte colonie batteriche in grado di ricavare energia da solfati di origine atmosferica che vengono catturati da formazioni stromatolitiche (concrezioni spugnose di origine biogenica). Questi studi hanno dimostrato che le grotte dei tepui possono essere preziosi laboratori per lo studio delle prime fasi della vita sulla Terra.
Il progetto è coordinato dal geologo Francesco Sauro, che per questo lavoro ha ricevuto nel 2014 il Rolex Award for Enterprise e quest’anno è stato citato dal settimanale Time tra i dieci giovani che stanno cambiando il mondo.
È la seconda volta che un membro del gruppo La Venta ottiene il premio Rolex. L’altro era andato nel 1992 ad Antonio De Vivo per un progetto esplorativo in Chiapas, Messico. Allora fu premiata una ricerca che consentì di scoprire vasti sistemi di grotte carsiche e al tempo stesso studiare la colonizzazione di un’area del Chiapas da parte della civiltà precolombiana Zoque. Anche in quel caso non fu premiata l’esplorazione fine a se stessa bensì l’approccio multidisciplinare e innovativo di un progetto speleologico.
Cogliamo l’occasione di un incontro con Francesco Sauro per fargli qualche domanda.
Fino a qualche anno fa gli speleologi erano percepiti come alpinisti all’ingiù. Oggi sappiamo che non è così. Ma cosa fa esattamente uno speleologo che un alpinista non fa?
La speleologia non è solo raggiungere una meta come può essere la vetta per l’alpinismo. Si tratta di un’attività che ha molte più sfaccettature e che rappresenta una delle ultime frontiere esplorative sulla Terra. Esplorando, lo speleologo amplia la conoscenza geografica del nostro pianeta e la estende al di sotto della superficie. Portando allo scoperto nuove terre apre la possibilità agli scienziati di investigarne il significato, per cercare di leggervi la storia del passato e per capire come la vita abbia potuto adattarsi ad ambienti estremi in mancanza di luce. La speleologia quindi non è esplorazione fine a se stessa né un gesto sportivo. Si tratta di un atto di ampliamento della conoscenza, aiutato dalla capacità fisica e tecnica di raggiungere questi luoghi remoti.
Quanti sanno che esplorazione geografica è anche ricerca?
L’esplorazione geografica, intesa nel senso “humboldtiano” e “darwiniano” (dalle spedizioni nelle Americhe di questi due grandi naturalisti dell’800, Alexander von Humboldt e Charles Darwin) è sì comprensione della struttura geografica del nostro pianeta, ma anche del contenuto di quella geografia. Quindi non esiste avventuriero, esploratore, cartografo, senza lo scienziato. Ciò che viene scoperto deve essere investigato, compreso nella sua specificità. In questo modo le informazioni che vengono estratte e che riguardano le più diverse discipline, dalla biologia all’etnografia, possono portare a comprendere il significato di quell’ambiente nel contesto globale e l’importanza di preservarlo. L’esplorazione geografica non è la conquista di un territorio, ma la sua lettura.
I tepui venezuelani e brasiliani sono remoti e difficilmente accessibili. Chi è stato il primo a esplorarli e a quando risalgono le prime ricerche speleologiche?
Le ricerche speleologiche nella regione della Guyana sono cominciate già negli anni Settanta. I piloti che sorvolavano questa zona dell’Amazzonia, spesso per rifornire le miniere di oro e diamanti dell’Alto Caroní, avevano già notato la presenza di enormi voragini, profonde spaccature e risorgenze sulle pareti dei massicci. All’inizio i geologi erano scettici: la presenza di grotte in queste montagne sembrava davvero improbabile data la bassissima solubilità del quarzo. Ma è stato solo questione di tempo: le evidenze superficiali hanno cominciato a convincere gli speleologi che qualcosa là sotto dovesse esistere. Le prime spedizioni risalgono al 1976, per poi continuare negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso con le ricerche della Sociedad Venezolana de Espeleología e dell’associazione La Venta. Fino a quel momento erano state trovate profonde grotte a sviluppo verticale, lungo fratture tettoniche sul bordo dei massicci. Ancora nessuno si era spinto all’interno dell’altopiano, ed è proprio qui che negli anni Duemila abbiamo trovato le grotte più gigantesche, labirinti ad andamento principalmente orizzontale.
L’esistenza di batteri in grotta non è una novità. Perché lo studio dei batteri nelle grotte dei tepui è così importante?
I tepui sono molto distanti dalla possibile contaminazione umana e le grotte di fatto sono ambienti isolati che non hanno mai visto un essere umano prima dell’esplorazione speleologica. Inoltre l’elemento predominante di questi ambienti è il silicio, cosicché la vita microbiologica deve trovare strategie per catturare i pochissimi nutrienti presenti nell’aria e nell’acqua della grotta. La competizione tra microorganismi è elevatissima, quindi è probabile che in questi ambienti si possano trovare nuove sostanze antibiotiche naturali. Su questi aspetti si sta concentrando la ricerca attuale.
A questo punto sorge un dubbio: se gli speleologi sono i primi a entrare in ambienti rimasti isolati per migliaia di anni (o milioni, come nel caso dei tepui), non c’è il rischio che con la loro presenza inquinino quegli ambienti?
Certamente, per questo è necessario utilizzare protocolli di protezione ambientale molto restrittivi. Per i tepui abbiamo sviluppato tecniche per minimizzare le zone contaminate e per riportare tutto (comprese urine e feci) in superficie e poi giù dalla montagna. Inoltre è fondamentale lasciare zone inesplorate e intonse, proprio perché non sappiamo ancora quale sia il nostro impatto sull’ambiente: lasciare luoghi intoccati ci consentirà in futuro di fare ricerca con tecniche oggi non ancora esistenti.
Raggiungere i tepui non è facile. Come fa un gruppo come La Venta a costruire e gestire un progetto così impegnativo?
Innanzitutto è necessario avere interlocutori locali, in questo caso gli speleologi del gruppo venezuelano Theraphosa, per poter organizzare tutta la complessa logistica sul posto. Una volta valutata fattibilità e costi dell’operazione, bisogna raccogliere un numero sufficiente di sponsor e finanziatori. E direi che di questi tempi questa è la parte più difficile. Negli ultimi anni abbiamo potuto contare sull’importante aiuto finanziario proveniente dal premio Rolex, ma anche sul sostegno per la ricerca fornito dall’Università di Bologna. Una volta che tutto è pronto, comincia l’avventura vera e propria: raggiungere in elicottero gli ingressi, installare sulla montagna campi autonomi in grado di operare anche per settimane senza supporto esterno. Spesso si tratta di trasportare tonnellate di materiale, attrezzature scientifiche e tecniche. E poi c’è la complessità della documentazione fotografica e video, aspetto che non va mai trascurato.
Quali sono i prossimi obiettivi del progetto?
L’obiettivo per il futuro è non tanto di esplorare altre grotte nell’Auyan tepui, ma piuttosto di estendere le ricerche ad altri massicci, sempre più all’interno dello scudo della Guyana, verso le aree amazzoniche di Venezuela, Brasile e Colombia. I tepui sono come isole ecologiche, ogni massiccio è rimasto separato dagli altri, per effetto dell’erosione, decine di milioni di anni fa. Studiare le grotte in diversi massicci è come entrare in isole all’interno di isole, e questo dà alla scienza la grande opportunità di studiare l’evoluzione della vita in quest’area del nostro pianeta. Inoltre vogliamo capire se queste cavità sono realmente distribuite in tutte le montagne dell’area, e se hanno similarità o caratteristiche diverse tra loro. Già nel luglio del 2015 abbiamo affrontato una prima spedizione al massiccio dell’Aracá, il più grande tepui in territorio brasiliano, trovandovi grotte e un notevole potenziale ancora da investigare in dettaglio. Inoltre a marzo 2016 si è svolta una spedizione nello sperduto massiccio del Sarisariñama nel sud del Venezuela: anche qui abbiamo trovato grotte gigantesche, un po’ diverse da quelle dell’Auyan, e le stiamo ancora studiando. Molti massicci quarzitici sono ancora intoccati e presentano grandissimi potenziali per l’esplorazione speleologica.
Perché andare così lontano per esplorare grotte? Non ne esistono tantissime vicino casa ancora sconosciute?
Si va lontano per cercare cavità diverse, eccezionali. Ma certo, per esplorare il mondo sotterraneo è sufficiente andare nelle montagne di casa, dalle Dolomiti all’Appennino alla Sardegna. Centinaia di speleologi in Italia stanno esplorando ed estendendo la conoscenza del nostro pianeta, e la maggior parte di essi lo fa per passione e non per professione. La speleologia ha un notevole impatto sulla nostra percezione del mondo, anche se è difficile accorgersene. Alle grotte carsiche sono legate le sorgenti da cui dipendono moltissimi acquedotti italiani. Alcune grotte possono fornire anche informazioni sulla sismicità del passato, e il loro studio aiuta a completare il quadro storico dei terremoti. Infine ci sono grotte che possono rappresentare elementi di rischio, e queste vanno conosciute e studiate.
Torniamo sul personale. Tu hai iniziato a frequentare le grotte fin da bambino. A un certo punto avrai intuito che il mondo sotterraneo potesse essere un territorio di nuove scoperte non solo geografiche. Quando è successo?
Il fascino per questi ambienti era davvero irresistibile fin dai primi momenti della mia attività speleologica. All’inizio non ci si rende conto di quanto possa essere interessante scientificamente una grotta. Nell’oscurità se ne può intuire il mistero, ma ci vogliono anni di esperienza e osservazione per capire che ci si sta muovendo davvero in un mondo nuovo. Bisogna diventare coscienti di star espandendo la superficie geografica del pianeta. Per me questa presa di coscienza è stata graduale, è arrivata grazie al lavoro col gruppo La Venta. Grazie all’impronta datagli venticinque anni fa dai suoi fondatori, l’associazione lavora secondo tre capisaldi: scoperta, conoscenza, protezione.
Cosa consiglieresti a chi frequenta la sua prima lezione di speleologia?
Lasciatevi sorprendere, non date mai nulla per scontato. C’è ancora troppo da scoprire e avrete la possibilità di essere anche voi esploratori di questa Terra.
Articolo originale: https://oggiscienza.it/2016/12/09/speleologia-e-ricerca-scientifica-unesplorazione-nelle-grotte-del-venezuela/
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