Quella muretta così piccola, attorno a quel paranco così piccolo, te lo dice subito chiaramente che i film sono film, i racconti sono sempre esagerati, l’immaginazione amplifica… quindi chieta l’emozione, Flauta, quella che ti fa girar la testa e messo il mal di stomaco a livello settordici.
Siamo io e Paolino, Alvise e Matteo, gli “intrepidi pigri”. Quattro gamel, insomma. Felpe è arrampicato sopra una muretta, alla casera, in cerca di segnale, poi c’è Mammolo, Marketto e Sergio, si attende Francesco e gli altri che scenderanno al fondo a lavorare. Noi dobbiamo uscire presto, Paolo deve andare a suonare (okay, dovrei anche io..) quindi facciamo gita fino a … “Felpe, secondo te dove possiamo arrivare tranquilli?”. Felpe, quello che per primo ha avuto insana fiducia in me, quasi due anni fa, nonostante la mia sconsolante prestanza atletica mi ha fatto fare cose che mai avrei immaginato. Incosciente, masochista, vai a capire, comunque a causa/grazie a lui son qua, al bordo del primo pozzo, attendo che scendano gli altri, facciamo passare. E bon, loro passano, calcolando che scendono due alla volta, e ci si mette un po’, e poi scivoleranno via, Flauta devi ripassare mentalmente il rilievo, i video su YouTube, chiedi di quel benedetto CaposaldoSette e vai, che siete soli. Soli in Preta, Diosantissimo.
Metto il discensore sulla corda, a fianco a me Alvise, agitato ed emozionato come è giusto che sia. Io pure, anche se sul primo frazionamento penso soprattutto “Responsabilità penale del più esperto = chesareiio, andiamo bene, Fla’”. E quindi, si scende.
Scendi. Piano, perché la corda non scorre. Entri nel santuario assoluto dell’esplorazione, e sai solo sospirare, catturare con gli occhi e la pelle tutta l’emozione del mondo. E quando vorresti rallentare per godertela ancora di più, la corda inizia a scorrere, e pesa talmente da non riuscire a frenarla come si deve, e ti incazzi perché vorresti godertela ancora di più.
E comunque, porco Giuda se è grande quel pozzo. A me sembrava un po’ come il Bus de la Lum da come sembrava nel film, quindi niente, il primo assunto, quello che il film ingigantiva troppo, era tutto sbagliato.
Scendi ed è figo. E’ tutto figo. E’ troppo figo. E’ talmente figo che pensi che stai usando l’aggettivo “figo” come una bimbaminkia, e c’hai quarantanni, usane uno meglio, uno più adatto.

Gridiamo il libera. Lo scandiamo a tempo, lungo quei 131 metri e chissà quanti nelle altre dimensioni, il riverbero rimane nell’aria per minuti.
Andiamo avanti, vorrei prendere almeno a voce gli altri davanti, ma perderei Paolo e Matteo dietro… okay, aspettiamo. Andremo soli, ce la posso fare.
Sfioro gli spit arrugginiti sulle pareti, i chiodi da roccia, come fossero reliquie. Qui è passata la storia, qui donne e uomini pazzeschi hanno creduto nei sogni, superando paura, fatica, incredulità.
Riuniti a voce tutti e quattro, vado avanti, gustandomela, come quando prendi una torta e la mangi direttamente col cucchiaino, dalla confezione, e poi lo giri, il cucchiaino, perché la lingua arrivi sull’incavo, senza lasciarne nemmeno un po’ sprecata.
Scendiamo i pozzi, mi fermo di fronte alla lapide di Marisa Bolla, la “gazzella degli abissi”, con rispetto e riconoscenza, pensando a quante donne son scese lì, come sherpa, come cuoche, probabilmente anche esplorando forte, senza però meritare il nome di un pozzo o di una sala, ricordate solo perché scivolate da una scaletta. Facciamo qualche video, un autoscatto di gruppo alla Sala della Cascata.

Arriviamo alla strettoia prima della sala Cargnel, la nostra meta, e la passo prendendola da sopra, mentre penso agli Omini Verdi, alle Vasche, al Biondo, a tutto lo stretto che mi è servito per imparare a vedere come passare, “non aver paura di scivolarci dentro”, mi ha sempre detto Sandrino. Quella strettoia è stato l’abbraccio della Preta, dolce e premiante, visto a dove porta.

Ritornare indietro, maledicendoci perché volevamo andare avanti. Tanta, troppa voglia di andare avanti. Qui si sta così bene, è così casa, è un mondo commuovente ed affettuoso. Ecco, affettuosa, la Preta è affettuosa.
Canto, attendendo il libera ai frazionamenti. Modifico i testi, li adeguo al contesto, c’è un’acustica pazzesca, una gioia in ogni gesto, non sento alcuna fatica, fino alla fine.
Quando arriviamo alla base del 131, mentre Paolo e Matteo risalgono il tiro unico infinito verso la frattura a cuore colorata di cielo azzurro, io non vorrei uscire più.
La respiro, la assorbo nella pelle e negli occhi, come all’inizio.
Poi uscendo, mi stenderò sull’erba, solo un minuto, ringraziando il cielo per aver il cuore da musicista e il fisico da segretaria, perché posso darmi il tempo di amarle così forte, queste grotte.
Soprattutto quelle così affettuose.

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