UN’INCHIESTA DI REPORT TORNA A DENUNCIARE LO SCEMPIO AMBIENTALE NELLE CAVE DELLE ALPI APUANE
Articolo Di Marina Abisso
Le cave di marmo delle Alpi Apuane: un dilemma ambientale e sociale
Le cave di marmo delle Alpi Apuane continuano a suscitare preoccupazioni per il loro impatto ambientale e sociale.
Un recente servizio di Report ha evidenziato il dramma delle montagne, con corsi d’acqua inquinati e paesaggi devastati dall’attività estrattiva.
L’uso intensivo delle cave ha portato alla scomparsa di intere porzioni di montagne e all’inquinamento dei corsi d’acqua con la marmettola, causando danni irreparabili alla fauna e alla flora locali.
Una parte significativa delle cave è gestita da imprenditori che beneficiano di concessioni estrattive perpetue, basate su leggi antiquate del XVIII secolo.
Questo ha generato controversie legali e ha impedito la regolamentazione efficace dell’attività estrattiva.
L’industria del marmo continua a generare profitti record, ma i lavoratori, irrisi dagli imprenditori, affrontano rischi elevati sul posto di lavoro e condizioni di impiego spesso precarie.
Nonostante le proteste e le iniziative di sensibilizzazione, il problema delle cave di marmo persiste.
Tuttavia, c’è speranza in un futuro in cui si possano trovare alternative sostenibili per il territorio e si possa avviare un dialogo costruttivo con la comunità locale.
Ogni marmo è una storia
Ogni marmo è una storia, si legge in tricolore sulla pagina internet di una società di escavazione: una storia iniziata male, che sta finendo peggio.
Se ne è tornato a parlare domenica scorsa, 21 aprile, su Report: l’inchiesta sulle cave di marmo delle Apuane ha fornito un agghiacciante panorama sul dramma delle montagne.
Tra corsi d’acqua inquinati e montagne tagliate, un conflitto costante coinvolge industriali, autorità locali ed enti di protezione ambientale, tra i quali – ricordiamo – sono annoverati anche CAI e Società Speleologica Italiana.
L’immagine delle montagne sventrate dalle voragini delle cave per ricavare per lo più materiale poco pregiato ci insegue ovunque.
Non riceve l’attenzione dovuta a causa della nostra abitudine a ignorare i disastri ambientali.
Così le montagne perdono il loro profilo o addirittura scompaiono, rase al suolo da anni e anni di scavi ed esplosioni.
È vietato toccare, anche solo intaccare, le creste montuose, ma sulle Apuane alcune cime sono irriconoscibili, come il Pizzo Falcovaia.
È vietato intercettare ed inquinare i corsi d’acqua, ma qui i resti delle lavorazioni chiudono il flusso idrico con la marmettola, polvere di marmo che rende candide e torbide le acque, portando con sé oli e metalli pesanti.
La marmettola scorre nell’acqua, candida come il latte, e soffoca qualsiasi forma di vita animale e vegetale trovi sul suo percorso.
Muoiono animali e piante e muoiono anche i fiumi, biologicamente parlando: il reticolo idrografico piano piano scompare, e a valle si susseguono da anni alluvioni sempre più devastanti, risolte con la prescrizione per accuse e reati.
La marmettola, rifiuto speciale, andrebbe raccolta in vasche di decantazione e poi smaltita: nessuno lo fa.
La si fa furbescamente scivolare sul pendio di monti e corsi d’acqua o nelle fratture che corrispondono alle cavità carsiche.
Il marmo di Carrara è una risorsa dal valore incalcolabile, ma il suo sfruttamento – che ormai non è più legato alle opere d’arte – ha lasciato un’impronta devastante sull’ambiente.
Non vogliamo pensare che il solo modello di sviluppo delle Apuane possa tendere all’estrazione del marmo, che dà lavoro a pochi, guadagni a meno e un danno incalcolabile per la collettività, a scapito di un paesaggio, un ecosistema che non si potrà più ricreare.
Dall’indagine di Report è emersa una vera kermesse ultrasecolare sulle concessioni estrattive, che affonda le radici nel XVIII secolo e fa millantare ai possessori d’epoca delle cave un diritto perpetuo di estrazione e di proprietà.
Il gestore principale delle cave di marmo a Carrara è il Comune, o almeno dovrebbe esserlo.
È l’ente che amministra gli agri marmiferi, vale a dire gli appezzamenti di cava pubblici, che sono dati in concessione per un dato periodo di tempo a singoli o a soci.
Lo è meno per quanto riguarda i cosiddetti beni estimati, le cave considerate di proprietà privata, che non è possibile riassegnare tramite gara pubblica.
Il “problema”, nella democratica Italia del 2024, deriva – riferisce Report – da un editto di Maria Teresa Cybo-Malaspina, Duchessa di Massa, Principessa di Carrara e Principessa Ereditaria di Modena, emanato nel 1751 per regolamentare l’attività di cava e mettere ordine in un sistema già allora privo di senso: aveva istituito una forma di concessione perpetua di escavazione per chi possedeva una cava registrata nel catasto dell’epoca da almeno 20 anni, mentre tutti gli altri avrebbero dovuto abbandonare e restituire le cave.
Sussiste questo diritto? Pare di no, ma ad oggi i tentativi del Comune e della Regione Toscana di mettere chiarezza legislativa nella situazione hanno prodotto ricorsi, cause e nessun risultato.
Per ora, hanno la meglio gli imprenditori che possiedono il 30% delle cave di Carrara: non pagano la concessione, con un danno annuale alle casse pubbliche – come ha quantificato Report – di circa 4.000.000 di Euro.
Non stanno male neanche gli altri imprenditori, che gestiscono il restante 70% delle cave: in forza di una legge regionale del 2015, hanno firmato una convenzione valida fino al 2041: dopo, bontà civica o regionale che sia, si farà finalmente gara pubblica.
Speriamo che ci sia ancora qualcosa da mettere in gara, o che la coscienza civica sia maturata.
Contro una chiara sentenza della Corte Costituzionale, gli imprenditori, a colpi di denunce, combattono per far diventare perpetue le loro concessioni, sostenendo che, per le cave, esistano diritti di natura reale, perpetui, assimilabili all’enfiteusi: diritti reali di godimento di una cosa altrui che dà loro ilpotere di utilizzare un fondo (di altri: un bene civico), percependone i frutti…
Una storia infinita, che si svolge in un territorio dove le imprese del settore hanno utili da record (più del 50% del fatturato!) ed un numero sempre più esiguo di dipendenti, tra l’altro soggetti ad un altissimo livello di incidenti sul lavoro.
A margine del servizio di Report, si è sentito un imprenditore sostenere che gli incidenti in cava sono colpa della disattenzione di operai “deficienti” (sic): ha dimenticato che, in Italia, il settore classificato a più alto rischio infortunistico è proprio quello dell’estrazione di materiali da cave a cielo aperto.
Ha dimenticato che, allo stabile margine di profitto di ogni ditta di escavazione corrisponde per gli operai uno stipendio né lontanamente paragonabile, né commisurato ai rischi che contraddistinguono le attività in cava.
Difficile accettare la tesi della semplice distrazione – o peggio – del lavoratore: i lavoratori hanno proclamato uno sciopero, ma torneranno presto a scavare.
E non bastano convegni e manifestazioni, anche se ha avuto larga eco il convegno/corteo di Carrara “Le montagne non ricrescono”, promosso il 16 e 17 dicembre scorsi dal CAI, con la Commissione centrale TAM e il Gruppo regionale Toscana, e da innumerevoli realtà amiche dell’ambiente, tra cui il collettivo Athamanta e la Federazione Speleologica Toscana.
Oggi nelle Alpi Apuane sono presenti oltre 160 cave attive e più di 500 inattive, mentre sono oltre 10 milioni i metri quadrati di territorio ridotto a discariche di scarti di estrazione.
Lo scandalo delle cave continua, nonostante la straordinaria valenza paesaggistica delle montagne: ad un Circo Glaciale del Solco di Equi si deve la Parete nord del Pizzo d’Uccello, simbolo delle Alpi Apuane.
Nel fondovalle scorre il Lucido, il corso d’acqua che scava il Solco d’Equi.
Qui affiora una risorgiva termale, che dà il nome a Equi Terme, luogo abitato nelle sue caverne fin dalla preistoria.
I percorsi segreti delle acque apuane hanno fascino e importanza, data la crisi idrica: le sorgenti di Equi, del Lucido, di Forno (o del Frigido), di Renara, del Cartaro, di Canalie sono solo alcune delle sorgenti carsiche delle Apuane che bordano perimetralmente il massiccio, con portata importante.
Le Apuane sono uno scrigno di biodiversità di fauna e flora insidiato dalle cave di marmo. Sono stati addirittura reperiti, in una cava dismessa, siti riproduttivi del raro Tritone alpestre apuano.
Intanto, si allargano le strade di cava, e si lavora incessantemente, a volte 6 giorni alla settimana.
L’inchiesta di Report ha avuto esito e continua a fare effetti: ha portato la questione a livello nazionale, con l’obiettivo di promuovere un dialogo con la comunità e di individuare alternative sostenibili per il territorio del Monti della Luna.
Marina Abisso
Speleo Club Ribaldone
Commissione TAM LPV
Fonti:
• Report – RAI 21/4/2024 – inchiesta condotta da Bernardo Iovene con Lidia Galeazzo e Greta Orsi
• Leonardo Piccini – “Le sorgenti carsiche delle Alpi Apuane” – https://www.sentieromenomille.it/it/scendere-in-profondita-idrologia/
Condivido tutto ciò che è stato denunciato. Aggiungo che nelle Alpi Apuane insistono anche altri bacini marmiferi, principalmente nei comuni di Minucciano, Vagli e Careggine, che la redazione di Report non ha preso in considerazione quantunque siano presenti gravissime criticità ambientali che ormai da diverso tempo hanno raggiunto punti di non ritorno e dove la speculazione estrattiva continua a essere l’aspetto dominante. In detti contesti non ci sono rivendicazioni di proprietà degli agri in quanto appartengono al demanio comunale, fatte salve rarissime irrilevanti eccezioni. L’imprenditoria estrattiva opera tranquillamente in assenza di conflitti. Al contrario c’è il conforto, per non parlare di connivenza, delle amministrazioni locali che così continuano a immettere nel proprio erario gli introiti dei canoni di concessione. Una politica di governo della cosa pubblica miope e disinvolta che ha contribuito a produrre veri e propri disastri ambientali. Gli ecosistemi da tempo sono saltati, fauna e la flora decisamente impoverite, bosco e sottobosco soffocati dalle polveri di marmo, fungaie distrutte, corpi idrici inquinanti e intasati dalla marmettola che ha cancellato ogni forma di vita. A ciò va aggiunta la mutilazione di belvedere, letteralmente mangiati dalle maldestre escavazioni che madre natura non ci potrà più restituire. Vittima principale la Valle di Orto di Donna, da sempre considerata il giardino delle Apuane, adesso ridotta in un paesaggio distopico dove ormai non è più possibile prsagire e nemmeno immaginare un futuro di vita gradevole. Nel frattempo nell’imprendtoria è subentrato anche un minore interesse a coltivare le cave razionalmente, con professionalità e responsabilità. Difatti, con l’avvio della produzione di carbonato di calcio (MI.GRA-Kerakoll) nello stabilimento di Minucciano in molti casi è considerato più conveniente e veloce frantumare il marmo e trasferirlo al luogo di trasformazione. Pratica questa che è sempre più abusata comportando peraltro uno scadimento dei livelli di professionalità e un aumento della pressione antropica sul territorio anche con il vertiginoso aumento della logistica di trasporto pesante.
In estrema sintesi la situazione è diventata insostenibile perché il territorio è devastato e la gente se n’è andata altrove alla ricerca di un futuro qui non più sostenibile.