Alle 21.30 ci sarà la diretta, su Napoli Underground e anche sulla Scintilena, della terza puntata dedicata alla storia del sottosuolo di Napoli, questa è la volta delle Cave di Tufo.

Sperando di fare cosa gradita, inserisco notizie relative alle cave di tufo di Napoli, che potrebbero interessare gli ascoltatori e integrare la trasmissione:

“La Storia del Sottosuolo Napoletano” a cura di Napoli Underground

Le cave di tufo

Sin dagli albori della storia di Napoli, ci si rese conto che quella pietra gialla, che così frequentemente s’incontrava sul territorio, era un ottimo materiale col quale realizzare abitazioni, e pertanto si è sempre più diffusa la pratica di coltivare il tufo per edificare la città.
Inizialmente il tufo era estratto nei luoghi ove era affiorante, e quindi i primi scavi furono certamente realizzati sulle falesie della collina di Pizzofalcone.
Sul territorio napoletano il tufo è raramente affiorante, nella stragrande maggioranza dei casi, esso è ricoperto da una coltre più o meno spessa di piroclastiti sciolte; questa condizione ha fatto rapidamente affermare la tecnica d’estrazione in sotterraneo.
Come conseguenza, con il tempo, essa ha fatto sì che si creassero una serie d’ambiti, che, prima come cave, poi come cisterne, successivamente come acquedotti, oltre ancora come ricoveri, generassero quella che oggi è definita la Napoli Sotterranea.
Le cave di tufo in sotterraneo si possono dividere, in base alla tipologia dell’ingresso alla latomia, in due gruppi:

1) con accesso a raso
2) con accesso da pozzi, denominati nel gergo dei cavatori, “occhi di monte”.

Il primo tipo si riscontra esclusivamente dove la natura scoprì, a seguito dell’erosione atmosferica o per degli sprofondamenti di crateri vulcanici, il banco tufaceo. Esse presentano uno o più accessi alla base del costone, che era generalmente perforato orizzontalmente.
La fase di attacco allo scavo si svolgeva tracciando sulla parete da perforare il profilo della galleria iniziale d’accesso, di dimensioni gia definite d’altezza e larghezza, dopo di che, ponendosi alla sommità della sagoma, si ricavava né più né meno che una nicchia.
E’ da notare che quest’ambito iniziale è alla sommità del previsto sviluppo della cava.
Di questa nicchia consideravano il piano di calpestio idealmente diviso in due parti. Quella più interna era lasciata intatta, sarebbe stata utilizzata in seguito, mentre da quella più esterna si tagliavano i blocchi di tufo da asportare, abbassandone man mano il livello del pavimento.
Nell’eseguire il lavoro di taglio e d’asporto del materiale, avevano inoltre l’accortezza di incidere, sulla parete di fondo che si veniva creando, degli scalini.
Ripetendo quest’operazione di livello in livello, scendevano fino alla quota che si erano prefissi, generalmente quella del piano campagna. Così facendo, al termine di questa prima fase, si trovavano d’innanzi ad una specie d’imbocco di galleria, di profondità minima, ma d’altezza e larghezza già ben definite e rilevanti, con una piccola nicchia nella parte sommitale, raggiungibile grazie agli scalini in precedenza incisi.
Risalendo sulla nicchia, l’operazione era ripetuta con lo stesso metodo, e il susseguirsi di questa serie di fasi, portava alla creazione di quelle cave di tufo che ancora oggi sono visibili sui fianchi di molte colline napoletane.
I blocchi staccati, in un primo tempo, erano trasportati all’esterno e lavorati in modo da adattarli alla forma e dimensione desiderata, successivamente, quando la cava sarebbe diventata più profonda, il lavoro di rifinitura era eseguito all’interno della cava stessa.
Questa tecnica d’escavazione è stata dedotta dall’osservazione sia di fronti di scavo abbandonati, sia dall’imponente quantità di pietre di scarto, residuo dei tagli, riscontrate nelle zone più profonde delle cave.
Questa tipologia di cava presenta comunemente una o più gallerie principali, parallele tra loro, ed una serie di gallerie trasversali di collegamento, che creano, tra loro, una rete vagamente ortogonale. La struttura descritta deriva dall’esigenza di asportare il maggior quantitativo di tufo possibile, senza, peraltro, compromettere la stabilità delle volte.
D’altro canto questo labirinto finiva col creare, alle intersezioni delle gallerie, dei pilastri che, se ben dimensionati, erano in grado di sopportare tranquillamente il carico delle volte.
Nel secondo tipo di cava il lavoro preliminare prevedeva lo scavo di un pozzo, l’occhio di monte, che attraversava la coltre d’incoerente; in questo tratto il pozzo, per evitare franamenti, era rivestito con muratura di tufo.
Giunti alla sommità del banco tufaceo lo si attraversava per qualche metro, lasciando invariata la sezione dello scavo. Questo tratto di materiale roccioso sarebbe poi stato la volta della cavità, e quindi quello maggiormente sollecitato staticamente.
Successivamente la sezione era allargata man mano che si procedeva verso il basso. Si creava così la classica forma a “campana”.
Questo tipo di cavità è quello più diffuso, perché consentiva di estrarre il tufo direttamente nel posto dove poi si sarebbe edificato, e lo scavo, una volta ultimato, era spesso intonacato.
Se la zona era servita dai cunicoli dell’acquedotto, si badava a collegare la cisterna con il “formale” più vicino, facendola diventare parte integrale del complesso idrico.
Se, viceversa, l’ubicazione dello scavo non consentiva il collegamento all’acquedotto, la cisterna era connessa, mediante pluviali, ai tetti dell’edificio, divenendo così una cisterna pluviale isolata.
Quando la cavità nasceva con il solo scopo di ricavare conci di tufo, essa era approfondita sino alla quota superata la quale sarebbe stato oltremodo faticoso issare il materiale in superficie. In questo caso lo scavo era spesso affiancato da altri ambienti, estendendosi così anche orizzontalmente.
Quest’ultimo tipo di cavità è quello che oggi desta maggiori preoccupazioni, giacché, quando l’attività estrattiva terminava, frequentemente, si chiudeva l’occhio di monte con un solaio di legno e si ricopriva di terreno vegetale; questa pratica a fatto sì che con il passare del tempo si è persa la memoria storica del sito.
Ai nostri giorni, purtroppo frequentemente, le cronache c’informano d’improvvisi ed insospettabili sprofondamenti.
E’ facile immaginare cosa sia accaduto: le infiltrazioni meteoriche, o la rottura di qualche sottoservizio, hanno rapidamente fatto marcire, e quindi cedere, il solaio di legno che copriva il primitivo accesso alla cava, ed i terreni sovrastanti, fluidificati, sono precipitati nella sottostante cavità, trascinando con sé le strutture di superficie.
Le proporzioni del dissesto e la sua estensione in superficie non sono legate tanto all’ampiezza dell’occhio di monte, quanto alla profondità nel piroclastico, alla quale esso si apre. Il materiale incoerente che sprofonda genera un vuoto che assume la forma di un imbuto, la pendenza delle cui pareti è legata sia all’angolo d’attrito tipico del materiale, sia alla profondità dell’inghiottitoio.
L’uso di estrarre il tufo dal sottosuolo per scopi edili è molto antico, infatti, nel 1983 è stata scoperta una cavità, sottostante il cimitero del Pianto, a Poggioreale, sulle cui pareti sono incisi caratteri in greco del tutto simili a quelli riscontrati sui blocchi di tufo della più antica cinta muraria della città.
Questa cava fu scoperta mediante un sondaggio eseguito propedeuticamente ai lavori d’ampliamento del cimitero; quando si scese in essa ci si rese conto che in origine doveva avere un ingresso a raso e che quest’ultimo crollando aveva occluso l’unico accesso.
Ma l’emozione più grande fu la scoperta di uno scheletro umano adagiato su un grosso masso sul fondo della cavità.
Probabilmente era uno dei lavoratori che oltre venticinque secoli orsono era addetto allo scavo e rimase intrappolato a seguito del crollo; il dramma fu che non morì sotto la frana ma dopo una terrificante agonia solo nel buio e senza nessuna speranza di soccorso. Questo è certamente il più antico esempio di caduti sul lavoro.
Dall’età romana, sino al XI secolo, la città si espanse molto lentamente, ma a partire dal XIII secolo, sotto gli Angioini, divenne capitale, e lo sviluppo urbanistico subì un’impennata: la popolazione sembra che sia passata da 40’000 a 60’000 unità, ed a ciò corrispose una più intensa attività estrattiva del tufo dal sottosuolo.
E’ durante questo periodo, e nei secoli a venire, che si affermò la pratica, che non è esagerata definire di vero e proprio saccheggio, di procacciarsi il tufo prelevandolo dalle vecchie cave oramai in disuso o dalle cisterne dell’acquedotto.
In pratica, nelle cave la pietra fu estratta proprio dai pilastri che ne sorreggevano le volte e negli acquedotti allargandone le cisterne.
Queste operazioni, in ambedue i casi, alteravano l’equilibrio statico delle latomie; infatti, i pilastri della cava, che erano stati ridotti di dimensione, non riuscivano più a sopportare il carico delle volte e in essi si cominciarono a riscontrare fenomeni di schiacciamento, che procurando lesioni verticali, né diminuivano ulteriormente la sezione, a tutto discapito della statica generale della cavità.
Nel caso delle cisterne, l’allargamento della loro superficie comportava un aumento della luce della volta che, se superava determinati parametri, generava delle lesioni nella stessa.
A partire dal periodo Angioino la città si è sempre più rapidamente estesa, e di pari passo la coltivazione di tufo nel sottosuolo ha assunto i connotati di una vera e propria rapina tanto che, durante il regno borbonico, nel 1781, fu promulgato un editto con il quale se ne proibiva tassativamente l’estrazione, pena tre anni di carcere.
Ma ormai la configurazione, nell’area urbana, della Napoli Sotterranea, era già definita.

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