Una sera me ne parlava il mio amico Stefano mentre ci bevevamo una birra: “Senti Masì (Masì sono io, detto Masini nel Gruppo UTEC), io ho deciso, non ho intenzione di riprodurmi, tanto è un cazzo de casino, è tutto un casino, perchè devo fare un figlio che vivrà sicuramente peggio di me? Se ci pensi, la razza umana non ha fatto altro che casini, disastri, se sparissimo faremmo un piacere alla terra, perchè siamo gli esseri peggiori che possano esistere. Tutto l’ecosistema ne beneficerebbe, anzi, sai che ti dico? Sarebbe più grave se sparissero, che ne sò, le formiche, perchè sparirebbero anche gli animali che mangiano le formiche e di conseguenza tutto un ecosistema che si basa su quegli animali. Pensa se sparissero le api, sparirebbe l’impollinazione delle piante, fine di tutti i vegetali sessuati, proprio un disastro, se invece sparissimo noi, non se ne accorgerebbe proprio nessun’altra specie”…
-“Lo sai che c’hai ragione? e se ci mettessimo tutti daccordo? mica ci vorrebbe tanto a far sparire l’uomo, senza ammazzarci, nel giro di massimo 90 anni saremmo completamente finiti come specie, basterebbe dire da oggi: “Basta, non si fanno più figli” decidiamo tutti di finire il genere umano visto che è il cancro di questo pianeta, facciamo un favore alla Terra”.
Erano solo parole davanti ad una birra, ma oggi su Tuttoscienze, l’allegato a “La Stampa” è apparso uno studio molto più scientifico che ci da ragione, nel giro di 100 mila anni non ci sarebbe più traccia alcuna di questi grandissimi figli di puttana boriosi che si autodefiniscono Umanità, fatti a immagine e somiglianza di Dio (sempre modesti), quindi, ecco lo studio di un americano e le sue considerazioni sulla scomparsa dell’Uomo dalla bella Madre Terra.

Notizia pubblicata su Tuttoscienze di oggi Mercoledì 11 Luglio 2007, allegato a “La Stampa

Il “test” di un prof Usa: la natura è più forte di quanto si crede Potrebbe cancellare quasi ogni traccia della nostra fragile civiltà
Articolo di Gabriele Beccaria
Cosa succederebbe se oggi sparissimo?
La ricerca
In pochi giorni New York finirebbe sott’acqua poi «basterebbero» 100 mila anni per eliminare gli inquinanti chimici

La Terra non ci ama e non ci metterà molto a cancellare ogni memoria del genere umano.
Ci crediamo padroni per diritto divino, dimenticando che siamo ospiti: maleducati e distruttori, tanto che contempliamo una traccia di noi in ogni angolo del Pianeta, ma pur sempre ospiti di
un ecosistema molto più complesso di quell’intreccio di cellule che compone il nostro io ipertrofico. Se oggi, 11 luglio 2007, noi, 6 miliardi e mezzo di rompiscatole, sparissimo per un evento imprevedibile e tra 100 mila anni un’astronave aliena si posasse su Manhattan, nessuno dell’equipaggio extraterrestre intuirebbe l’avventura cominciata con Lucy, la donna-scimmia di 3 milioni e mezzo di anni fa, e finita con il duello Bush-Osama. Di noi non resterebbe nulla di nulla.
Non è il migliore dei pensieri estivi, anzi è terrificante. Ma è quello che l’americano Alan Weisman, reporter scientifico e professore all’Università dell’Arizona, propina con un libro catastrofico e serissimo – «The Earth Without Us» (la Terra senza di noi) – in vendita da ieri negli Usa.
Lui non si chiede che cosa ci potrebbe spazzare via (un secondo diluvio o una pandemia). Lo appassionano le conseguenze della fragilità della civiltà. Ecco una scelta, partendo proprio dalla capitale-simbolo della nostra specie invasiva, Manhattan.
Pochi giorni, appena, e la rete sotterranea della metropolitana, non più controllata dai sistemi di pompaggio, si sfascia sotto la tempesta di un immenso allagamento. Non ci credete? «In un normale giorno di sole – spiega Weisman – i tecnici devono estrarre oltre 45 milioni di litri d’acqua, provenienti dalle sorgenti sotterranee dell’antica isola dei nativi americani».
Nel frattempo i sistemi energetici collassano e già in un paio di decenni strade ed edifici si decompongono come cadaveri: i cicli delle stagioni, piogge e neve e le aggressioni della flora aprono crepe e squarci, inducono crolli, scardinano strutture. Pochi sanno che un grattacielo – se mantenuto in perfetta efficienza – è progettato per durare non più di 60 anni e un ponte non oltre 120. «Per vedere come apparirebbe il mondo ho vagato negli ultimi luoghi selvaggi», ha raccontato Weisman. Per esempio tra Polonia e Bielorussia, dove sopravvive un frammento della foresta primigenia. «Poi sono andato nella zona smilitarizzata tra le Coree» e anche là piante e animali prosperano tra i cannoni.
E non si è fatto mancare gli Eden africani, frementi per l’energia di una natura invincibile. Mettendo insieme scene diverse e interrogando studiosi di tante discipline, dagli ecologi agli ingegneri, prevede per esempio che il Nord America ridiventi «il regno dei cervi giganti». La prova dell’aggressività della vita è intorno a Cernobil: abbandonata 20 anni fa dopo il disastro alla centrale nucleare, scarafaggi, topi e cani hanno compiuto uno spettacolare ritorno nella città fantasma di Pripyat.

«Che cosa succederebbe se…?». E’ una domanda che spesso inquieta gli studiosi e il saggio «The
World Without Us», in vendita negli Usa da ieri, risponde all’interrogativo più spaventoso: se l’umanità svanisse di colpo, che cosa rimarrebbe di noi? Poco e non per molto, risponde Alan Weisman: il nostro «dominio» sul pianeta è più apparente che reale, spiega, offrendo una serie di straordianri spunti per scienziati, ecologisti e anche politici. Informazioni sul sito Internet http://www.worldwithoutus.com/.

Se è sufficiente mezzo secolo perché una foresta rigeneri i suoi labirinti, ne serve anche meno agli animali per riprendere il sopravvento. E così si riaffaccia la competizione, spesso in forme inattese. Milioni di bovini alla mercé delle bande di lupi. Specie ora in via di estinzione, come il condor,
eliminate da un habitat ridiventato primordiale e altre, a partire dagli insetti, libere di espandersi in ogni eco-nicchia. Negli oceani, oggi stremati dalla pesca, si accende una crescita esponenziale e sulla terraferma gli emblemi della domesticazione – cani e grano – regrediscono a forme evolutivamente più semplici. Sarà un salto indispensabile, dato che l’eredità umana sa assumere forme tenaci. Dissolti il sapere internettiano e i paesaggi artificiali della luce elettrica, il «footprint» (la nostra impronta sul Pianeta) non si annulla certo in un attimo. La CO2 che abbiamo buttato nell’aria dalla metà del Settecento si fa sentire per almeno altri 100 anni e plastiche, pesticidi e
prodotti chimici ideati dal nostro genio sono infinitamente più forti dei colori della Cappella Sistina e del metallo delle auto. Le discariche dei rifiuti imballati sfidano i millenni che si sono mangiati l’Empire State Building e la Grande Muraglia. E anche i rifiuti radioattivi, i frammenti dell’hi tech e il mercurio sanno resistere come certi batteri fanno con temperature impossibili. Ma i tempi della Terra sono altri. Ecco perché dopo 100 mila anni di digestione ogni traccia della nostra presenza è stata pressoché metabolizzata.
Tutto è pronto per lo sbarco degli alieni o per un secondo inizio con un’umanità vergine. Ma non è detto. Il Pianeta potrebbe averci preso gusto e godersi per sempre la nostra assenza. «Vedere che cosa succede senza di noi resta un modo stupendo di cacciare via paure e ansia», ha detto Weisman a «Scientific American ». E’ saggezza o sadismo?

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